L’inizio della mia quarantena

L’inizio della mia quarantena

“Il maggior ostacolo al vivere è l’attesa, chi dipende dal domani, perde l’oggi. Predisponi ciò che è in potere della fortuna, lasci andare ciò che è in tuo potere. Dove miri? Dove ti proietti? Tutto quello che deve avvenire è incerto: vivi senza indugio.”

Seneca

Mi trovo a Bologna, con la mia famiglia e il mio piccolo flash, in casa come voi, con mille ansie e preoccupazioni, non solo per il virus, ma per il lavoro, gli affetti, la salute. Ho i vostri stessi pensieri. Ho sempre quella domanda fissa nella testa… cosa succederà dopo ?

Il decreto è entrato in vigore il giorno prima del mio trasloco a Milano. Ovviamente è saltato tutto, e mi sono ritrovata nel panico puro, mentre pensavo alla mia casa piena di scatoloni, senza sapere più come fare, in prenda a mille ansie e mille domande. Non amo gli imprevisti, e di primo acchito mi sono messa a piangere dal nervoso, mi è venuto un vero e proprio attacco d’ansia. Non respiravo, non smettevo di imprecare. Non sapevo cosa fare, dove andare, come risolvere tutto il lato burocratico del trasloco, mentre attorno a me c’era il panico generale. Il telefono era impazzito. Dopo la crisi isterica mi sono calmata, come faccio sempre, e ho deciso di prendere in mano la situazione. Ho iniziato a telefonare, annullando tutto. Ho chiamato la mia proprietaria di casa di Rimini, pregandola di prolungarmi l’ affitto a tempo indefinito, chiedendole di non cacciarmi, dato che non avrei più avuto una casa. Non potevo andare né avanti né indietro, non potevo fare niente. Ero già a Bologna, Rimini era già diventata zona rossa, ed essendo residente a Bologna ho deciso di rimanere con i miei genitori. Credo di essere stata almeno due giorni in silenzio, non avevo molto appetito e non ridevo mai. Passavo la notte a leggere articoli, cercando sempre le news che potessero farmi stare più tranquilla, che potessero darmi quel barlume di speranza che, lo ammetto, avevo perso. Mia sorella è un’infermiera, lavora con i malati terminali, e per quanto non sia un vero e proprio ospedale, non riuscivo a calmarmi all’idea che lei fosse sempre a contatto con persone diverse, e, in un certo senso, a rischio. Ho iniziato ad avere paura per i miei genitori, non più ragazzini, e a pensare a cosa sarebbe successo se papà, a lavoro, avesse incontrato qualcuno di infetto. Lui, dentista, che per lavorare mette le mani nella bocca delle persone. Credo di aver provato qualcosa che mi ricordo di aver provato solo una volta nella vita. Quando fui ricoverata nella struttura che mi ha curato dall’anoressia. Impotenza, rassegnazione, sgomento, paura. E’ stato come uno schiaffo in pieno viso, mi ha riportata in quel preciso momento della mia vita. Ma ora lo stanno provando tutti. Non soffro solo io, ora soffrono tutti. E io non posso fare niente, nessuno può fare niente. E’ così e basta. “Cause di forza maggiore”. Frase che odio e che ho sempre odiato. La verità è che ho tanti pensieri. Pensieri che non riesco a mettere in silenzio, con i quali combatto ogni giorno. Non posso lavorare, non lavoro da un mese e non so quando tornerò a farlo. Credo che passeranno mesi, prima che io possa salire di nuovo in console. Mi sembra che mi abbiano tolto un pezzo di me. La mia valvola di sfogo preferita, ciò che mi fa sentire viva ed economicamente tranquilla. Quello che mi ritaglia un posto nel mondo. Quello che mi soddisfa. Vittoria non posso vederla. E’ la mia migliore amica. Abita in un altro comune e c’è il divieto. Non la vedrò per tre settimane. Speravo di poterlo fare ma non mi è concesso. Il mio fidanzato abita a Roma, non posso vederlo e chissà quando lo rivedrò. Non posso toccarlo, né averlo al mio fianco. Sento molto la sua mancanza, il suo appoggio. Soprattutto quando sono giù di morale. Darei tutto per una sigaretta insieme. Non posso vedere mia sorella, facendo l’infermiera ci vuole tutelare da qualsiasi tipo di contagio, in modo che io non possa trasmetterlo a mamma o papà, lo fa per proteggerci. Gliene sono grata, ma non posso dire che non mi manchi. Non posso andare dal mio terapista, l’unica persona che sa come sistemarmi l’umore. Che mi aiuta nei miei crolli psicologici e nella mia lotta (continua) con la mia parte ammalata. Vorrei svuotargli adesso il mio calderone di pensieri, ma non posso farlo. Non posso andare in palestra, il mio vero e proprio compromesso con la malattia, ciò che mi ha fatto fare passi da gigante, nel corpo ma soprattutto nella vita. Ciò che mi fa calmare quando mi tornano le paranoie. Non posso suonare, perché la consolle è impacchettata nei cartoni a Rimini.

Non sono qui a dirvi che sarà facile, come potete vedere ognuno ha le proprie storie e le proprie paure, le proprie sofferenze. Quando ero al centro ho imparato una cosa, che sto cercando di rispolverare, e che spero di trasmettervi. Ci vuole pazienza. Bisogna aspettare. Passare in mezzo al tornado per poi vedere la luce. Per poi ricostruire tutto. I momenti brutti servono anche a misurarci come persone, come  compagni, come amici. Ci saranno nuove chanches, nuovi obiettivi, nuove emozioni, nuovi pensieri, nuove interpretazioni della nostra vita. Io l’ho passato e vi assicuro che c’è veramente qualcosa dopo le cose brutte. Non è un modo di dire, è reale. Esiste e aspetta solo noi. La pazienza verrà ripagata.

Non siete soli, non lo sarete mai.

 

 

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